RAZZA, NAZIONE, ARTE
Meyer Schapiro
arteideologia raccolta supplementi
nomade n.1 dicembre 2007
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NON AMERICANI, QUINDI PRIVI DI VALORE

Molti artisti danno per scontato che l’arte di un tedesco debba avere un carattere teutonico, l’arte di un francese debba essere francese e quella di un ebreo ebraica.
Essi credono che i gruppi nazionali e gli individui posseggano delle qualità psicologiche relativamente stabili e, di conseguenza, che la loro arte presenti dei tratti distintivi, ingredienti immediatamente riconoscibili di uno stile nazionale o razziale. Suppongono così che l’arte francese, da un capo all’altro della sua lunga storia, si distingua da quella tedesca per le sue qualità di eleganza, buon gusto, formalismo, caratteristiche che nessun tedesco potrebbe mai acquisire, a meno di non avere sangue francese; allo stesso modo, attribuiscono all’arte tedesca un carattere intrinseco di violenza, esagerazione, immaginazione, realismo e irrazionalità estraneo al gusto francese.
Simili distinzioni in ambito artistico sono state messe a servizio della propaganda militarista e fascista, con la pretesa che certi popoli siano diversi e superiori rispetto ad altri, dei quali perciò si giustifica l’eliminazione.
Le teorie razziali fasciste si richiamano costantemente alle tradizioni artistiche; i suoi simboli principali derivano da antichi motivi ornamentali.
Dove, se non nelle tracce artistiche del passato, un nazionalista può ritrovare le prove tangibili del suo immutabile carattere razziale?
La sua esperienza personale si limita infatti a un paio di generazioni; solo i monumenti artistici del suo Paese lo rassicurano sul fatto che i suoi antenati erano come lui e che il carattere a lui proprio è un’eredità permanente radicata nel suo sangue e nella sua terra (...).
Ragionamenti analoghi implicano importanti conseguenze per la società e l’arte americane.
Ci insegnano che la grande arte nazionale può provenire unicamente da chi appartiene davvero al Paese, nello specifico agli anglosassoni; che l’immigrazione straniera e la mescolanza dei popoli dissolve il carattere nazionale portando alla comparsa di forme d’arte ibrida di qualità inferiore; che l’influenza artistica straniera è essenzialmente perniciosa; e che l’attuale debolezza dell’arte americana è in gran parte il risultato di contaminazioni esterne.
Queste opinioni non sono che una parte di una più ampia ideologia della società americana, un’ideologia che condanna i neri, gli indiani, i giapponesi, i messicani, gli ebrei, gli italiani e gli slavi come elementi inferiori, e che giustifica la loro oppressione per le esigenze di una necessità economica e culturale della «razza» dominante.
Con il consolidarsi della reazione politica, le argomentazioni a favore dell’esistenza di differenze razziali e nazionali immutabili diventano sempre più preponderanti, provocando divisioni tra le masse, che oggi esigono con una lucidità e una combattività senza precedenti una vita decente e il controllo della propria esistenza.
L’antagonismo tra lavoratore e capitalista, tra debitore e creditore, è ora rivolto verso uno scontro di natura razziale che indebolisce e confonde il popolo, conservando comunque intatti i rapporti originali tra ricchi e poveri.
Un nemico straniero prende il posto del nemico conosciuto; minoranze innocenti e indifese vengono offerte in sacrificio alla rabbia cieca di cittadini economicamente frustrati.
I difensori delle condizioni consolidate sono abilitati a stigmatizzare come non americani, e quindi privi di valore per gli Stati Uniti, tutti i risultati che contadini e operai di altre nazionalità sono riusciti a conseguire nelle lotta per il benessere.
Non stupisce che le argomentazioni a favore delle differenze razziali e nazionali siano sostenuti dai gruppi più reazionari d’America.

NERI DI SINISTRA, NERI D'AMERICA, NERI D'AFRICA

Ma molti artisti di sinistra, e anche di estrema sinistra, che respingono il nazionalismo senza ambiguità, condividono l’idea che l’arte sia sottoposta a caratteri immutabili di razza o nazione. Questo concetto autorizza una facile spiegazione delle differenze tra le manifestazioni artistiche dei popoli moderni, permettendo, nell’ignoranza della complessità dei fattori che determinano le forme artistiche, di ricondurre l’arte di un Paese a una caratteristica locale immutabile, come si riconduce una singola opera d’arte alla personalità del suo autore.
L’artista sostiene inconsapevolmente quelle stesse teorie che minacciano l’indipendenza artistica.
Egli può denunciare l’idea che neri ed ebrei siano intrinsecamente inferiori agli europei, ma accetta le distinzioni tra arte nera, italiana, tedesca e francese come altrettanti tratti psicologici permanenti.
Alcuni Neri di sinistra insegnano al Nero d’America che deve coltivare gli stili tradizionali africani, perché il vero genio della sua razza è emerso con maggior forza proprio in questi aspetti, e che deve abbandonare i suoi sforzi per dipingere come un Bianco.
Questa idea è accettabile da parte della destra bianca che desidera innanzitutto impedire ai neri di assimilare le forme più alte della cultura europea o americana.
Ed è tanto più pericolosa in quanto a un primo esame sembra riconoscere la  grandezza dell’arte dei Neri d’Africa, e quindi sembra favorevole ai Neri. Ma, vista più da vicino, in realtà li taglia fuori dalla cultura moderna.
L’arte dei Neri d’Africa è il risultato delle condizioni di vita tribali del passato. Imporre questo tipo di arte al Nero americano moderno significa condannarlo a uno status culturale inferiore. Inoltre, il Nero moderno, che sia africano o americano, non avrebbe nessuna possibilità di riprodurre l’arte africana classica; riuscirebbe a ottenere solo imitazioni di qualità inferiore, come i falsari europei che eseguono sculture pseudo-africane per i turisti ignoranti.

LUOGHI D'ORIGINE E LUOGHI COMUNI

La nozione di costanti razziali o nazionali nell’arte, considerata scientificamente, soffre di tre irrimediabili debolezze. In primo luogo, lo studio empirico dell’arte di Paesi altamente civilizzati protratto sul lungo periodo ha dimostrato senza il minimo dubbio che i grandi cambiamenti storici della società si accompagnano a cambiamenti importanti anche dal punto di vista artistico.
Considerata la diversità storica degli stili all’interno di uno stesso Paese, non è possibile caratterizzare l’arte nazionale attraverso un tratto psicologico dominante o costante; l’arbitrarietà e la vacuità di questo tipo di  generalizzazioni («l’arte europea è dinamica, l’arte asiatica è statica» ecc.) sono risapute ed è sufficiente una conoscenza superficiale dell’arte per smentire questi luoghi comuni ampiamente diffusi.
La tradizione dell’arte francese non è fatta unicamente di eleganza e gusto, o di precisione, ordine e logica. Sono qualità dai contorni imprecisi, emerse solo in certe epoche e in condizioni particolari. Durante il periodo che va dal 1830 al 1860, è la Francia a produrre l’arte più realistica e anche più romantica dell’epoca (...).
Se, tra il 1905 e il 1920, l’Espressionismo tedesco è l’espressione artistica più veemente e tormentata d’Europa, in supposta sintonia con la natura tedesca, il termine che definisce in arte la soddisfazione, il comfort domestico, il benessere privo di connotati storici è Biedermeier, uno stile tedesco del secondo terzo del XIX secolo. Anche le arti più stabili, come quella egizia, esempio classico di immobilità culturale, vedono modificato il loro carattere espressivo sotto la pressione di grandi cambiamenti sociali ed economici.
L’arte dell’Egitto sotto il dominio bizantino, la cosiddetta arte copta, non ha molto a che vedere con quella antica faraonica e, allo stesso modo, l’arte musulmana d’Egitto si differenzia da quella copta che l’ha preceduta.
I pretesi caratteri psicologici razziali dell’arte si sviluppano e si trasformano nel corso della storia e non presentano rapporti riconosciuti con l’eredità di un popolo.
E' vero che sono state trovate somiglianze considerevoli tra le forme artistiche moderne e antiche di una stessa regione. Ma non si tratta di analogie prestabilite, attribuibili a qualche priorità intangibile inscritta nel sangue degli abitanti di quella regione. Esse risultano sovente da una tradizione persistente o da un ritorno consapevole al passato, come tra gli artisti neoclassici in Francia che copiavano Poussin, o da una somiglianza di condizioni, finalità e mezzi, che sono alla base di tendenze comuni in forme artistiche in realtà assai diverse, com’è il caso per Courbet e i realisti francesi del XVII secolo, figli della classe media.
Inoltre, non si può dire che in un dato momento il carattere di un’arte rifletta la psicologia di una nazione o di un intero popolo; esso riflette più spesso la psicologia di una classe sociale, quella per la quale quest’arte è concepita, la classe dominante quindi, che modella a sua immagine ogni espressione artistica.
E' per questo che l’arte dei contadini tedeschi del XVIII assomiglia più all’arte dei contadini francesi che non a quella della nobiltà tedesca. E l’arte della nobiltà tedesca è più vicina a quella della corte francese di quanto questa non lo sia rispetto all’arte dei contadini francesi.
Questi esempi ci consentono di capire l’importanza capitale delle differenze sociali ed economiche, e in che misura esse cancellano le pretese costanti razziali e nazionali.
La varietà dell’arte all’interno di un Paese e le analogie dell’arti di Paesi diversi possono essere descritte anche in un altro modo: oggi ci sono più analogie tra le forme artistiche dei Paesi europei economicamente avanzati di quante non se ne riscontrino tra l’arte contemporanea e quella medievale o rinascimentale all’interno di uno qualsiasi di questi Paesi.
La pittura “fauve” francese assomiglia di più alla pittura espressionista tedesca che non all’arte francese del XVII secolo. Durante questi ultimi cento anni, le differenze di stile all’interno di una stessa arte, come la pittura, all’interno di un singolo Paese, sono diventate molto evidenti (...).
In quasi tutti i paesi europei, si possono vedere, uno accanto all’altro, esempi di arte accademica, classicheggiante, romantica, realista, impressionista e astratta, non riconducibili a una costante nazionale o razziale.
Ci sono naturalmente alcune caratteristiche dei pittori tedeschi contemporanei che sono meno riscontrabili in opere francesi e viceversa, ma dal momento che queste qualità non sono né esclusivamente tedesche né comuni a tutti gli artisti che parlano tedesco o che vivono in Germania, e visto che non possono essere definite elementi distintivi dell’arte tedesca del passato, sarebbe un errore considerarle caratteristiche permanenti della razza, insite nel sangue tedesco.
Più che altro, possono essere riferiti alle particolarità culturali di un Paese, legati alla tradizione e alla storia e alle altre innumerevoli circostanze materiali e sociali in perenne cambiamento che costituiscono e trasformano la vita umana.

L'ARTE MODERNA NON E' "COLPA" DEGLI EBREI

Il collegamento tra condizioni locali specifiche e il preteso carattere razziale nell’arte è evidente nell’arte prodotta dagli ebrei. I manoscritti ebraici miniati del Medio Evo riflettono generalmente lo stile della regione in cui sono stati realizzati.
A Parigi sono parigini, in Renania renani, a Venezia veneziani.
Persino la scrittura ebraica è espressione della cultura del Paese che l’ha prodotta.
Chi abbia familiarità con gli stili della scrittura latina del XV secolo in Germania e in Italia potrà dirvi immediatamente, pur non conoscendo la lingua e l’alfabeto ebraici, se un manoscritto ebraico proviene dall’Italia o dalla Germania.
In epoca moderna è possibile osservare gli stessi rapporti nei dipinti degli ebrei.
Ruthenstein è inglese, Pissarro francese, Soutine russo, Pechstein tedesco.
E' molto difficile che un critico che non conosca questi pittori e le loro opere possa capire, a partire da dettagli formali o da un effetto d’insieme, che si tratta di opere realizzate da ebrei.
Gli autori che tentano di spiegare l’arte moderna attraverso le manovre degli ebrei, vedono nell’intellettualismo ebraico l’origine dell’arte astratta, nell’emotività ebraica l’origine dell’arte espressionista e nello spirito pratico ebreo quella dell’arte realista.
Questo tentativo ridicolo di isolare gli ebrei come responsabili dell’arte moderna è sullo stesso piano dell’accusa nazista in base alla quale la razza ebraica sarebbe il vero sostegno del capitalismo, e dei bolscevichi che ne scalzano le fondamenta. Il terzo difetto delle interpretazioni razziali dell’arte è inerente al concetto stesso di razza.
L’idea di una razza pura è un mite rinnegato dagli antropologi seri. La distinzione tra sottogruppi razziali o tipi fisici all’interno della razza bianca, fatta dai moderni ricercatori, attraversa le frontiere nazionali e contraddice l’idea che le nazioni si distinguano le une dalle altre per via della razza o che siano composte da gruppi omogenei. Gli stessi tipi fisici si ritrovano in Germania e in Francia. >
New York (USA) 1936
Ma anche se queste corrispondenze tra razza e nazione o tra razza e cultura fossero reali, non ci sarebbe comunque una base scientifica che lasciasse presuppone l’esistenza di caratteri psicologici distinti associati a tratti fisici propri di ogni razza o gruppo etnico, o che una razza possa essere superiore e avere dei doni culturali biologicamente radicati e rifiutati ad altri popoli.
Le differenze tra le culture dei popoli primitivi e quelle dei popoli civilizzati oggi si spiegano in modo più adeguato riconducendole ad ambienti naturali o circostanze storiche differenti o agli effetti di condizioni favorevoli e impellenti.
Test psicologici hanno dimostrato che non esiste un’inferiorità atavica nei popoli cosiddetti «sottosviluppati».
La comunità di lingua e di costumi viene costantemente fatta coincidere con una comunità di sangue o carattere fisico.
La storia degli abitanti della Francia mostra chiaramente che si sono formati dalla fusione tra gruppi culturali diversi (Celti, Iberi, Baschi, Franchi, Goti) e popoli preistorici dell’età della pietra e del bronzo.
Il risultato di questa mescolanza è una grande varietà di tratti fisici che non corrispondono che in minima parte alle suddivisioni geografiche.
Uno studio sulle origini genealogiche dei pittori francesi del XIX secolo rivela che essi appartenevano a stirpi diverse, provenienti da differenti regioni.
Esiste un gruppo più francese (per utilizzare il linguaggio nazionalista) degli Impressionisti?
Monet era di Le Havre, Degas era nato da madre creola e da padre per metà italiano, Sisley era nato in Inghilterra da genitori inglesi e Pissarro era ebreo antillano figlio di madre creola.
Ciò che unisce stilisticamente questi artisti è la cuftura comune al cui interno sono cresciuti e hanno creato la loro arte.
E' più importante riconoscere che Monet, Sisley, Degas e Pissarro erano figli di mercanti e che tutti e quattro hanno dipinto per la società parigina dell’ultimo terzo del XIX secolo, che non osservare la forma del loro cranio o del loro naso o determinarne l’origine razziale.
Se questa analisi è corretta, dobbiamo denunciare gli appelli a un’arte americana che identificano l’Americano con un gruppo specifico legato al sangue o alla razza o l’arte americana attraverso caratteristiche psicologiche che si ritengono eredità del passato.
Non possiamo fare altro che tacciare di misero sciovinismo un’osservazione come quella fatta da Craven quando affermò che Alfredt Stieglitz, in quanto ebreo di Hoboken, non poteva essere considerato un giudice dell’arte americana.
In virtù di questa logica, Craven, nato in una regione (ndr il Kansas) che ben poco ha contribuito su scala mondiale alla pittura e alla critica, non potrebbe essere preso sul serio come critico dell’arte europea.
D’altra parte, è evidente che lo sforzo per creare un’arte in America ha le sue radici nelle condizioni di vita in questo Paese, condizioni che, ben lontane dall’essere stabili e uniformi, sono eterogenee e in continuo mutamento.
Il carattere americano è tanto variegato quanto lo è la scena americana. Il concetto di ciò che è o deve essere americano è determinato in ultima analisi dalla storia, dalla tradizione, dai mezzi, dagli interessi e dallo stile di vita delle diverse classi sociali.
Un proprietario terriero del Sud e un operaio o un contadino del Nord che hanno preso coscienza delle disparità tra le proprie condizioni reali d’esistenza e i propri diritti «americani sanciti dalla Costituzione, avranno un concetto diverso di ciò che può considerarsi specificamente americano (...).
L’artista non sceglie un colore piuttosto che un altro perché lo ritiene più americano, ma è costretto a riconoscere l’americanismo della sua arte quale è posto da gruppi reazionari che, in nome di questo stesso americanismo, danno origine a un antagonismo razziale e nazionale, calpestano i diritti democratici e invitano l’artista a mettersi al loro servizio o a morire di fame.
E' in accordo con i propri bisogni, intesi concretamente e nel senso più ampio, compresi quelli di libertà, di sicurezza economica e di un pubblico veramente democratico e aperto; è in accordo con ciò che egli considera come le forze più progressiste della società americana che l’artista forgerà il proprio concetto di arte americana.
Un’arte che sarà uniforme o variegata non perché esistono una o più razze, ma sulla base della natura della vita sociale: uniforme nella misura in cui le differenze sociali ed economiche saranno abbattute, variegata nella misura in cui le differenze regionali, professionali e individuali avranno garantita una vera libertà di espressione. (M.S.)

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UNO SCAMBIO DI LETTERE
Due mesi dopo l’apparizione di questo saggio, sempre su “Art Front” apparve uno scambio di lettere riguardanti l’articolo di Schapiro.
Il pittore Jennings Tofel (1891-1959) distingueva un nazionalismo buono da uno cattivo e rimproverava a Schapiro un atteggiamento etnocentrico:
“Le nazioni avide, proprio come gli individui avidi, da sempre sottomettono i popoli deboli. Guardate come il signor Schapiro intende venire in soccorso di questi popoli sottomessi; voi, Cinesi, Indiani, Neri, Ebrei, Egiziani, Etiopi, dimenticate che siete paesi e razze distinte. Smettete di sventolare le bandiere bianche del vostro patrimonio culturale e storico davanti ai vostri vicini e maestri. […..] Dimenticate le vostre Bibbie e i vostri Corani, le vostre tradizioni, la vostra storia, i vostri costumi e la vostra lingua, i vostri eroi e ideali nazionali, le vostre legislazioni e gli insegnamenti morali”. Al contrario, conclude rivolgendosi a Schapiro,”non provate il desiderio di sottrarre, soprattutto agli artisti delle minoranze, il loro patrimonio culturale mentre gli offrite il vostro, allo stesso modo dei missionari religiosi [,....].”
Questa fu la risposta dì Schapiro:
[…..] Non chiedo agli artisti e ai popoli oppressi di abbandonare le proprie tradizioni culturali. Cerco al contrario di mostrare loro che la cultura o la nazione alle quali un artista appartiene esercitano su di lui un’influenza molto più profonda di quella del suo ipotetico patrimonio genetico. […..] Se critichiamo il tentativo compiuto da alcuni neri di sinistra dì resuscitare le antiche arti africane proponendole come cultura di razza dei neridi oggi, non è perché disprezziamo queste espressioni artistiche, ma perché il ritorno a un passato lontano indebolirebbe il nero di oggi nella sua lotta per l’uguaglianza e la libertà. Non farebbe che accentuare la sua esclusione presente dalle forme più avanzate della cultura moderna. Un popolo oppresso, nella sua lotta per l’indipendenza, non si batte solo per mantenere le sue tradizioni storiche. Non può vincere se non nella misura in cui utilizza armi moderne e assimila le lezioni delle lotte rivoluzionarie europee. I suoi costumi tradizionali sono a doppia lama: possono servire da base per affermare le capacità umane del gruppo oppresso e le sue rivendicazioni di autonomia politica e culturale, ma possono anche frenare queste aspirazioni; possono insegnare la passività, il conservatorismo, la sottomissione. Il Corano, al quale il signor Tofel desidera che gli arabi continuino ad attenersi, sostiene la schiavitù, chiede ai servi di rispettare i loro padroni e chiude le donne negli harem. Le tradizioni della Cina sono servite a sopprimere lo zelo rivoluzionario delle masse cinesi e non a incoraggiarlo. […..] Un’ultima parola sul nazionalismo “buono” e quello “cattivo”. Quando fa questa distinzione, il signor Tofel non è molto chiaro, aprendo così la strada a nuove confusioni. Cade nell’errore di attribuire le guerre a nazioni “avide” e di descrivere il fascismo come la sfruttamento e la perversione di un nazionalismo fondamentalmente sano. Le guerre non sono causate da «nazioni avide», ma dai bisogni delle classi dominanti di paesi capitalisti, che necessitano dì nuove terre per le materie prime e per creare nuovi mercati o luoghi di investimento e lottano per consolidare i loro possedimenti o per salvaguardare uno status quo minacciato”.

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Il testo di Meyer Schapiro, apparso per la prima volta nel marzo 1936 in “Art Front”, n. 4, p. 10-12, è stato ripubblicato in Les Cahiers du Musée national d’art moderne, n. 93, autunno 2005 con la presentazione di Jean-Claude Lebensztein, di cui riportimamo una parte.

[...] Devo questo articolo alla cortesia di Henri Zerner che in un simposio al Louvre per Meyer Schapiro, dichiarava la volontà di ridare alle stampe i suoi primi testi, per la maggior parte molto critici e fortemente impegnati. Schapiro, a quel tempo vicino al milieu trotskista newyorkese, li pubblicò in riviste di sinistra come «New Masses», Partisan Review’, «Marxist Quaterly» o, per il brano in questione, «Ad Front», la rivista dell’«Artists’ Unica», sindacato di artisti politicamente o artisticamente progressisti che si svilupparono negli Stati Uniti durante gli anni Trenta. Questo testo (‘Razza, nazione e arte”) prende di mira le teorie razziali e nazionaliste in ambito artistico e, in particolare, il regionalismo, il più reazionario tra i movimenti di artisti realisti che andavano allora per la maggiore negli Stati Uniti (poco dopo, Barnett Newman scendeva a sua volta in campo con un articolo dal titolo «What About lsolationist Art?»), I rappresentanti principali di questo movimento erano i pittori Thomas Hart Benton, James Steuart Curry, Grant Wood e il loro ideologo Thomas Craven. Due anni dopo, nel 1938, Schapiro pubblica sulla "Partisan Review’" un contributo sull’autobiografia di Benton, nel quale si ritrova la ferocia a tinte smorzate che illumina la lettura dei suoi testi polemici («Benton è stato accusato di fascismo, ma un tale giudizio è prematuro»). In queste pagine Schapiro considera le basi nazionaliste e razziste del regionalismo da un punto di vista generale, poiché è cosciente che tali basi si ritrovavano anche altrove, non soltanto nelle diverse espressioni del Neoclassicismo che dominavano l’arte europea di quegli anni, ma anche nell’ideologia spontanea del mondo artistico occidentale. Tempo dopo, nel suo articolo «Style» (1953), ne evidenziò le tracce in grandi storici dell’arte come Heinrich Wölfflin o Alois Riegl.
E' facile mostrare come questi segni costituissero il fondamento, più o meno visibile, della storia dell’arte nella sua quasi totalità. La cultura di Stato, con l’amnesia che le è propria, vorrebbe dimenticare che le sue parole d’ordine (le nostre radici, il nostro patrimonio, i nostri valori) provengono direttamente dalla destra nazionalista e fascista. 
Se molti degli argomenti, delle assenze e dei punti di vista espressi in queste poche pagine si richiamano a  un’epoca ormai superata, purtroppo oggi, settant’anni dopo, sono ancora tristemente attuali.
(J-C.L.)


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Ringraziamo il sito “fararte” per la versione italiana nella traduzione di Gaia Graziano, di cui riportiamo una nota di traduzione: Non riuscendo a trovare una espressione più appropriata si è tradotto “liberal” con “di sinistra”, “radical” con “di estrema sinistra” e “reactionary”, a seconda dei casi, con “reazionario” o “di destra”.